Luigi Pareyson filosofo della libertà
nato a Piasco nel
1918, giovane professore al Liceo classico di Cuneo e a fianco di Duccio
Galimberti nella resistenza italiana, fra i maggiori pensatori europei
del dopoguerra.
Articolo di Francesco Tomatis
pubblicato su Cuneo: provincia granda, n. 2, anno
2000, pp. 16-20.
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Luigi
Pareyson nel 1968
(archivio Rosetta Schlesinger)
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Luigi Pareyson (1918-1991) è indubbiamente uno dei maggiori filosofi
italiani del XX secolo. Per quanto poco valgano in filosofia i confronti
e le classifiche, trattandosi sempre di un caso singolarissimo - e così qualitativamente eccezionale da essere incomparabile - quello
del nascere al mondo di un filosofo, non mi sottraggo tuttavia a un
arrischiato compito comparativo, prima che storiografico, per rendere
l’idea della sua grandezza. A mio giudizio, nella filosofia italiana
del Novecento, a Pareyson possono essere messi accanto solo Michelstaedter
e Gentile: non quindi Croce, Gramsci, Evola, Del Noce, Severino,
per quanto importanti. Ciò significa che nell’ambito della filosofia
europea (ma l’aggettivo è tautologico) solo Wittgenstein e
Heidegger lo precedono, soprattutto per gli effetti suscitati dal
loro pensiero, notando quanto comunque gli stessi due filosofi maggiori
del Novecento non siano che epigoni rispetto ai grandi della stagione greca
e tedesca della filosofia: Platone, Aristotele e Plotino da un lato, Kant,
Fichte, Hegel e Shelling dall’altro.
Che Pareyson fosse destinato a divenire un grande filosofo lo si comprese
presto. Nel 1937, ad esempio, presentò una esercitazione scritta
a un seminario universitario del suo maestro Augusto Guzzo, dal 1934 titolare
della cattedra di filosofia morale all’Università di Torino. Questi,
aprezzandola, la fece leggere a Giovani Gentile, in quanto all’epoca direttore
della maggiore rivista italiana di filosofia, il “Giornale critico della
filosofia italiana”. Stupito per la profondità e l’originalità
del testo, Gentile chiese a Guzzo di quale filosofo torinese si trattasse,
non pensando certo ad un diciannovenne. Nel 1938 uscì quindi sulla
rivista di gentile la prima pubblicazione di Pareyson, le famose Note
sulla filosofia dell’esperienza. E proprio del particolare rapporto
di Pareyson con l’esistenzialismo è possibile avviare un tentativo
di comprensione della sua originalità nell’ambito della filosofia
novecentesca.
Pareyson fu il primo filosofo a far conoscere in Italia la filosofia
dell’esistenza, tedesca soprattutto, sviluppando egli stesso una forma
personalistica ed ontologica di esistenzialismo. Con irruente purezza e
semplicità giovanile Pareyson ruppe l’unico coro neo-idealista (rarissime
eccezioni degli isolati, se non esiliati, quali Giuseppe Rensi, Piero Martinetti,
Adriano Tilgher) - unente sino ad allora, nelle figure esemplari di Gentile,
Croce e Gramsci, accademia soggetta al regime, pubblicistica liberale,
opposizione politica incarcerata - presentando l'esistenzialismo non solo
come filosofia capace di comprendere le tragiche problematiche contemporanee:
fatte di guerra e sofferenza, di fallimento dei totalitarismi politici
e intellettuali, dei falsi egalitarismi collettivi, nelle varie versioni
borghesi, cameratesche, comuniste, ma anche come antidoto radicale alle
filosofie e ideologie ottocentesche all'origine delle catastrofi novecentesche,
cogliendo in Kierkegaard il padre dell'esistenzialismo e la vera alternativa
a Hegel, così rinvigorendo per giunta le pure fonti religiose dello
stesso ateismo esistenzialista novecentesco, nonché aprendo nuove
prospettive di lettura e comprensione di profonde correnti di pensiero
e filosofi tacitati dall'hegelismo imperante, quali l'idealismo e il romanticismo,
Fichte e Schelling in particolare.
Sin dalle sue prime opere: La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers
(1939, 1940), Studi sull'esistenzialismo (1943, 1950), Esistenza
e persona (1950), Pareyson individua quello che sarà il nucleo
incandescente alimentante perennemente il suo pensiero successivo, nei
suoi continui approfondimenti ulteriori, ereditandolo dalla concezione
di Kierkegaard dell'esistenza come coincidenza paradossale di autorelazione
ed eterorelazione. Varco di accesso non solo alla mia vita personale, ma
alla realtà in genere, è l'esistenza: l'esistenza di questo
singolo che io sono. Tuttavia il singolo non è un separato individuo,
soggetto assolutamente autonomo e autosussistente. L'esistenza è,
in quanto tale, coincidenza di ciò che parrebbe non poter coincidere
- e che è quindi coincidente in modo paradossale -, paradossale
coincidenza cioè non necessaria articolazione o relazione - di autorelazione
ed eterorelazione, della relazione con sé, autofondantesi, che ogni
singola esistenza è, e della relazione con altro, che altrettanto
imprescindibilmente, seppur coincidente in maniera paradossale, essa stessa
è.
L'esistenza è se stessa e comprende se stessa in quanto è
in relazione con altro e comprende l'altro, e viceversa. Secondo questa
profonda radice kierkegaardiana dell'esistenzialismo, Pareyson propone
quindi la propria autentica versione di esso come esistenzialismo personalistico
e ontologico. Personalistico perché è la singola persona
vivente, non un astratto a priori trascendentale o esistenziale, a qualificare
l'esistenza e la sua inaggirabilità, pena l'intransitabilità
di qualsivoglia minimo senso della realtà e della vita umana. Ontologico
perché è nell'apertura all'essere che ci trascende, che mi
trascende, che io posso scegliere ed essere me stesso. Che l'esistenzialismo
non possa che essere personalistico e che il personalismo non possa che
essere ontologico ci dice allora che l'esistenza è quia talis apertura
di trascendenza, quindi possibilità di esperienza religiosa. Infatti
che l'esistenza sia paradossale coincidenza nel tempo di autorelazione
e di eterorelazione mostra quanto la relazione con sé, nell'apertura
alla relazione con altro, che ogni singolo è non possa esistere
se non in quanto posta, istituita, donata a se stessa e al suo aprirsi
all'alterità da una trascendenza che è tale non in quanto
posta dalla autorelazione coincidente con la eterorelazione, ma perché
trascendente la stessa relazione, e nel momento stesso in cui istituisca
tale relazione, cioè perché è l'irrelativo che pone
la relazione fra il relativo e l'irrelativo stesso, quindi senza cessare
di essere irrelativo nell'istituire liberamente il relativo come possibile
relazione con l'irrelativo.
Grazie a questo ritorno a Kierkegaard Pareyson può risalire
la nefasta storia degli effetti hegeliana. Leggendo la filosofia e la storia
contemporanea come dissoluzione dell'hegelismo, Pareyson ne individua due
correnti, quella risalente a Kierkegaard, che conduce all’esistenzialismo,
e quella che attraverso Feuerbach giunge sino al marxismo e all'attualismo.
Kierkegaard dissolve il sistema hegeliano negando l'identità fra
pensiero e realtà, la conciliazione dialettica fra storia ed eternità,
ancorando ogni possibile verità alla soggettività del singolo,
incoercibile a qualsivoglia sistema assoluto del sapere. Tuttavia, a detta
di Pareyson, mantenendo la concezione negativa del finito, tipicamente
luterana, già propria a Hegel. Feuerbach risolve invece la filosofia
di Hegel antropomorfizzandone gli aspetti più ideali, riducendo
a ciò che è reale il razionale e il reale a ciò che
è sensibilmente percepibile o desiderabile. Tuttavia la posizione
atea di Feuerbach e dei suoi epigoni è ricomprendibile, in un orizzonte
più ampio, nella kierkegaardiana, nella concezione dell'esistenza
come innanzi tutto autorelazione, che se inospitale giunge alla disperazione,
malattia mortale, e se invece aperta nella eterorelazione alla trascendenza,
ed eventualmente all'esperienza religiosa, possibile nella sua stessa misura
finita e temporale, corrisponde alle questioni stesse dell'ateismo, assumendolo
in sé e vincendone tuttavia l'egoismo mortale. Ecco che ritornare
a Kierkegaard e all'origine teorica delle vicende contemporanee significa
per Pareyson porsi nuovamente e più consapevolmente ancora di fronte
al dilemma: pro o contro il cristianesimo? E per Pareyson si tratta di
scegliere un cristianesimo tragico, dialettico, paradossale, esso soltanto
capace di dare risposta alla deriva atea del pensiero e della storia contemporanea,
vivendo e vincendo l'ateismo in sé, sino alla morte in croce per
rivelare nella abissale libertà dell'uomo la eterna libertà
che è Dio.
L'ontologicità dell'esistenzialismo, la apertura alla trascendenza
dell'essere, prima ancora che alla libertà di Dio, dell'autocomprendersi
dell'esistenza umana, conduce inevitabilmente Pareyson, come già
Heidegger prima di lui, ad approfondire il proprio esistenzialismo in filosofia
ermeneutica, che intenda l'esistenza in quanto tale come comprensione dell'essere
trascendente. Prima che Gadamer e Ricoeur, i due più noti filosofi
ermeneutici dopo Heidegger, Pareyson elaborò negli anni quaranta
e cinquanta una propria filosofia dell'interpretazione o ermeneutica. Oltre
che in Esistenza e persona (1950) e in articoli precedenti, i risultati
maturi di tale elaborazione sono contenuti in Estetica. Teoria della
formatività (1954) e infine in Verità e interpretazione
(1971), opera che chiude questo secondo periodo ermeneutico nel cammino
di pensiero di Pareyson. Se la realtà è accessibile solo
e sempre singolarmente, attraverso l'esistenza personale che io sono, ogni
mio atto o pensiero o esserci è interpretazione, personale incarnazione
dell'essere che trascende la mia situazione. Non che l'interpretazione
sia parziale attingimento dell'essere, bensì ogni vera e autentica
interpretazione è il darsi stesso dell'essere in essa: essere che
non sta quindi come un oggetto intangibile al di là delle proprie
interpretazioni, e che tuttavia non si riduce alle interpretazioni, non
ne è esaurito, ma mantiene la propria differenza ontologica. Qui
sta lo specifico della posizione di Pareyson rispetto a gran parte delle
restanti filosofie ermeneutiche: il mantenimento, anzi la sottolineatura
della imprescindibilità della verità per una concezione interpretativa
della realtà. L'ermeneutica non solo non mette in crisi, ma cerca
di comprendere ed esige ancora più fortemente di ogni altra filosofia
la verità.
Perché la verità trascendente e assieme immanente alle
sue esistenziali e personali interpretazioni non si riduca a ideologia,
a mera espressione della condizionatezza storica dell'interprete, anziché
mostrarsi simultaneamente a ciò anche rivelazione di inesauribile
e inoggettivabile ulteriorità, essa non può tuttavia esser
semplicemente intesa come fonte incessante eppure imperscrutabile suscitatrice
di infinite interpretazioni proprio approfondendo la concezione ermeneutica
della verità attraverso un riattingimento delle proprie origini
esistenzialistiche, Pareyson nell'ultima tappa del suo pensiero si dedica
all'elaborazione di una ontologia della libertà, un discorso sull'essere
che lo intenda come libertà. Libertà quindi non solo in quanto
primaria essenza della esistenza umana, ma anche nel suo significato originario,
metafisico, ontologico: l'essere stesso come libertà. Infatti solo
comprendendo l'essere come libertà se ne potrà rivelare pienamente
la trascendenza veritativa: una necessità logica o semplicemente
eventuale, quale l'inesauribile e inesorabile imperscrutabile darsi dell'essere,
ne legherebbe circolarmente al finito ogni possibilità di eccedenza
significativa. Solo se l'essere trascendente è libero di darsi o
di non darsi in una forma finita, solo se l'irrelativo è libero
di porsi o di non porsi nella relazione che esso stesso istituisce, e in
un istituirla che non sia un vincolarvisi necessitante, la verità
non è fagocitata dall'interpretazione né l'infinito reso
vuoto prodotto del finito. Si raccolgono in estrema concentrazione, lungo
tutta l'ultima tappa del cammino filosofico di Pareyson, il suo esistenzialismo
personalistico, la sua ermeneutica veritativa e la sua ontologia della
libertà (originaria e finita, indivisibilmente), capaci assieme
della forza per affrontare la scoscesa realtà della sofferenza e
del male. In opere uscite, nella loro complessività, postume, come
Dostoevskij (1993), Ontologia della libertà (1995),
Essere libertà ambiguità (1998), Pareyson ripropone
quindi una coraggiosa teoria dell'essere, una ontologia, ma non nel comune
senso necessitaristico della cosa, bensì un'ontologia della libertà,
che comprenda l'essere originario stesso come libertà. Libertà
assolutamente iniziale, arbitraria, imperscrutabile, eppure ontologica,
propria all'essere stesso nella sua eterna positività, indiscutibile
e immemorabilmente attuale. Pareyson concepisce paradossalmente e dialetticamente
la libertà come inizio e assieme come scelta, unità originaria
irrevocabile in Dio di inizio e scelta, di eternità e unicità
nell'iniziare, se stessa e ogni altro ente o creatura, e di assolutezza
e arbitrio positivo nello scegliere: nel decidere quindi di essere il bene
e l'essere dall'eternità e per l'eternità, significante simultaneamente
e retroproiettivamente l'esclusione e la vittoria sul male e il nonessere,
posti nell'atto di sconfiggerli e senza che alcuna alternativa precedesse
tale eterna e irrevocabilmente positiva autooriginazione divina.
Ma in quanto ontologica, caratterizzante essenzialmente l'essere stesso,
la libertà implica allora l'indivisibilità della libertà
umana e divina. |